Dalla parte degli sbirri

Di Francesco Bernacchio
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Una vita nelle forze dell’ordine per Raoul Bova, che dall’inizio della sua carriera non ci ha mai risparmiato il fascino della divisa. Ora esce al cinema con Sbirri, di Roberto Burchielli. Un film nel quale Raoul crede moltissimo, tanto da averlo prodotto insieme con sua moglie. Il protagonista di Sbirri non è un poliziotto, ma un giornalista che ha perso un figlio per una storia di droga. Per questo decide di partire per realizzare un’inchiesta, mischiandosi con la polizia e partecipando alle azioni. La novità del film sta nel fatto che tutte le operazioni della ssquadra sono vere, e che il regista ha ottenuto la possibilità di inserire elementi di finzione in reali giornate di routine della polizia. Quello che ne esce fuori è un ibrido interessante, che pure lascia qualche dubbio sull’effettiva naturalezza delle sequenze. Ne abbiamo parlato con Raoul Bova.

Come hai sviluppato questa idea?



Il protagonista del film è ispirato a Fabrizio Gatti dell’Espresso, che ha realizzato inchieste di questo tipo. L’idea del film è nata mentre guardavo con mia moglie un documentario di Roberto Burchielli, Cocaina. Siamo rimasti molto colpiti, ed è subito nata l’idea di inserire un elemento di fiction in un documentario. Così quella che è la ricerca della verità da parte di un padre diventa anche un modo per vedere la verità concreta delle operazioni di polizia.

E’ davvero possibile che delle persone qualsiasi, in questo caso una troupe cinematografica, possano partecipare a delle operazioni di polizia?

Sì, ma è ovviamente un permesso che ci hanno accordato, molto delicato da gestire. Il regista conosceva già alcuni poliziotti dopo gli altri lavori di inchiesta che aveva girato, e molte scene le ho realizzate da solo usando una minicamera. Abbiamo ovviamente dovuto garantire la privacy senza far riconoscere le persone coinvolte nelle operazioni.

Deve essere stata un’esperienza forte, trovarsi in mezzo a degli arresti.

Sì. Alla fine delle riprese ero sempre molto scosso. E’ stato sconvolgente anche come padre di due bambini di nove e sette anni. Girando con questi poliziotti ho scoperto che ci sono bambini delle elementari che usano droghe, che le spacciano. Spero che questo film sia utile anche per sensibilizzare gli spettatori su fenomeni che probabilmente ignorano.

Il film vuole proporre i poliziotti come eroi, quindi.

Più che altro come figure che lancino un messaggio positivo. Non volevamo fare un’apologia della polizia, ma vedere con quanta dedizione questi uomini si dedicano alla giustizia non può non dare un messaggio positivo. Quello che manca sono degli eroi positivi, ecco.

I poliziotti coinvolti nel film sono stati naturali pur sapendo che c’erano le telecamere? A un certo punto del film, uno di loro dice: “Insegui il ragazzo di colore!”.

Ma no, figuriamoci. Anzi, il capo della polizia stesso non ha voluto che tagliassimo alcune scene troppo violente. I ragazzi erano talmente impegnati che non credo proprio avessero il tempo di fingere per via delle telecamere.

La recensione del film.

Le foto in questo articolo sono di Daniele Florio.

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Francesco Bernacchio

Appassionato di pop a trecentosessanta gradi, ama il cinema d'evasione, l'animazione e i film che non durino più di due ore.

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