I segreti di Osage County

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Al centro della poetica del drammaturgo statunitense Tracy Letts c’è il controllo, sia esso riconquistato o perduto, isolato dietro le dinamiche commerciali una pasticceria dell’Illinois (Superior Donuts) o penetrato a fondo nelle fondamenta cigolanti della classe media (August: Osage County), esistenziale e apollineo come nella rigenerazione di Man from Nebraska o letale e sfuggevole come negli imprevisti di Killer Joe.
Gli uomini e le donne che popolano il teatro di Letts sembrano sempre vittime della medesima sindrome, posseduti da uno sproporzionato senso di autorità che li spinge a considerare tutto e tutti piegati al loro volere, salvo poi cadere sciaguratamente sotto il peso del fallimento, a metà fra il decadentismo degli aristocratici cechoviani e il nichilismo dei criminali da due soldi del conterraneo Jim Thompson.



Punto d’arrivo di una ventennale carriera – e puntualmente consacrato dal Premio Pulitzer – August: Osage County mescolò gli elementi e i simboli base del suo disperato universo allestendo il tutto in una cornice da southern drama tanto debitrice dell’opera di Tennessee Williams quanto profondamente personale e autobiografica, rinunciando ai contesti borderline dei lavori precedenti per immergersi nella malsana, cagionevole quotidianità della famiglia borghese e sostituendo alla brutalità principalmente fisica delle sue catarsi (chi può dimenticare l’estrazione dentale di Bug o la coscia di pollo di Killer Joe?) una violenza fatta di massacri psicologici e di parole penetranti quanto una coltellata alle spalle.

E’ curioso, quindi, che i difetti di questo I segreti di Osage County stiano in buona parte in quel concetto chiave, quel controllo di cui poc’anzi si scriveva: ancora una volta unico sceneggiatore-adattatore di una sua piéce, Letts fa tutto il possibile per riprodurre su pellicola quel meccanismo detonante e quel fascio inestricabile di nervi che la tragicomica riunione forzata della dinastia Weston, fra cornucopie di barbiturici e piatti rotti, cenni di incesto, abuso e pedofilia, recriminazioni vetrioliche e misteri inconfessabili, rappresentava sul palcoscenico.

Affidato con troppa leggerezza all’inesperto John Wells, produttore televisivo di lungo corso al suo secondo lungometraggio (dopo The Company Men), l’inesorabile e per certi versi esilarante progressione drammatica del testo di partenza si liquefa in un’impostazione da piccolo schermo scialba e polpettonesca che trasforma tre ore e mezza di statica tensione in nemmeno 120 minuti di monotona piattezza, una soap opera nella quale, forse peccando di zelo per dissimulare l’origine teatrale, l’insieme appare spezzettato in una serie di momenti disomogenei condensati a mero sfondo per fruste e sterili prove di bravura nelle quali ognuno pare recitare per conto proprio, lasciato a se stesso da una regia assente e asservita ai grandi nomi messi a disposizione dalla produzione.
I protagonisti stessi del dramma, di greca tragicità e grandezza sulla scena, finiscono, nel migliore dei casi, per essere soverchiati dalle personalità del cast all-star di turno, dal solito accademismo impeccabile e ormai stantio della Streep (la spietata matriarca Violet) alle velleità anti-divistiche della Roberts (l’irruenta di lei figlia maggiore Barbara), che danno l’impressione di fare a gara a pretendere l’Oscar ad ogni costo di dialogo in dialogo – missione compiuta, viste le nomination -, mentre nel peggiore sono rovinati da uno scellerato miscasting, Benedict Cumberbatch e Abigail Breslin, rispettivamente “cugino” e figlia di Barbara, in testa, o vengono retrocesse a mere figure di carta velina (Ewan McGregor, che interpreta il marito di Barbara, si nota appena, e lo stesso vale per una Juliette Lewis, nei panni della di lei sorella Karen, che probabilmente era meglio ricordare da viva): a fare bella figura e a lasciare un’impronta sono, un po’ a sorpresa, gli attori più sottotono, nella fattispecie il sempre intenso Chris Cooper (qui Charles, cognato di Violet) e, soprattutto, una misurata Julianne Nicholson, che mantiene intatta quella straziante, miserabile ricerca della felicità che è il motore della sua Ivy, la triste sorella di Barbara.

Rimane ben poco di quel presentimento di dissoluzione e di transitorietà che permeava la commedia (la citazione di T.S. Eliot con cui questa si conclude – “Così finisce il mondo. Non in un baccano ma in un piagnisteo” – nel film non c’è) e viene inspiegabilmente ridimensionato il ruolo della domestica cheyenne Johanna, laconico trait d’union fra i vari personaggi che nello sconfinato e ciò nonostante claustrofobico paesaggio delle Grandi Pianure dell’Oklahoma sembra fungere da testimone per gli sviluppi – citando lo stesso Letts – “di quel genocidio nel quale l’Uomo occidentale, sterminando i nativi, ha piantato i semi della sua stessa distruzione”.

Dispiace vedere uno dei capisaldi della moderna drammaturgia americana ridotto ad una sequenza di duelli attoriali ricercati a bella posta, ed è un peccato vederne alterata l’essenza, in particolare il suo nerissimo, implacabile umorismo in favore di un ammuffito impianto che più hollywoodiano non si potrebbe: John Wells, a produzione imminente, ha espresso da subito i suoi timori all’autore – nel frattempo impegnato a tempo pieno a Broadway a recitare Chi ha paura di Virginia Woolf? – manifestando riverenza per “un capolavoro generazionale che verrà messo in scena da qui ai prossimi 100 anni” che avrebbe avuto “una gran paura di mandare personalmente a puttane”.

Fa male dirlo, ma alla fine è andata esattamente così.

Voto: 5

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