Venezia 71 – Giorno 2 – Video

Di Andrea Bosco
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Joshua Oppenheimer, Signe Byrge Sorensen e Adi Rukun per The Look of Silence

Con il consueto, asciutto pudore che da sempre contraddistingue il suo cinema, Beauvois parte da uno spunto tanto farsesco quanto disperato, ossia la vicenda reale del trafugamento della salma di Charlie Chaplin da parte di due immigrati senza arte né parte al fine di ottenere un lauto riscatto. La rançon de la gloire si affida a un andamento genuinamente monicelliano e al volto “malincomico” del belga Benoît Poelvoorde, reso familiare al grande pubblico nostrano da prodotti di cassetta come Emotivi anonimi e Niente da dichiarare?, presente al Lido anche col triangolo sentimentale di 3 coeurs) e al sorriso triste à la Mastroianni – evocato anche dalla presenza nel cast della figlia Chiara – del franco-marocchino Roschdy Zem, ma restituisce ulteriore genuinità coinvolgendo nel progetto anche un’autentica discendente dell’autore di Tempi moderni, la nipote Dolores. Ne esce un agrodolce ritratto della quotidiana miseria umana a tratti un po’ confortante – non manca, con le dovute proporzioni, il finale più lieto che era lecito chiedersi -, ma il coinvolgimento, grazie in primo luogo a due protagonisti trascinanti e di contagiosa simpatia, non manca e l’omaggio, non tanto a Chaplin, quanto a Charlot (di cui peraltro, ricorre il centenario della nascita) come protettore dei reietti e dei rinnegati suona sincero e toccante.Si parlava di idee riciclate al termine del daily di ieri, e per certi versi, in positivo, si è avuta la medesima sensazione con il secondo film in Concorso, il ritorno del texano Joshua Oppenheimer nei territori delle persecuzioni anticomuniste in Indonesia compiute dal nascente regime di Suharto e della surreale convivenza di oggi fra i sopravvissuti, succubi e soprattutto carnefici, di allora: dopo lo straordinario, destabilizzante The Act of Killing, il documentarista ne offre con The Look of Silence la versione antitetica, non più incentrata sulla irrazionale reminiscenza dei torturatori, ma sulla dimessa prospettiva di chi della dittatura fu vittima, un po’ meno dalla parte di Herzog – sempre produttore esecutivo, insieme al sodale Errol Morris – e un po’ di più da quella del cambogiano Rithy Panh (di cui ricordiamo il capolavoro L’image manquante, di recente approdo agli Oscar).

The Look of Silence

Il risultato è per forza di cose meno folgorante dell’opera precedente, e sorge quasi il dubbio che Oppenheimer abbia voluto inutilmente sedare ogni sospetto di ambiguità con una visione inevitabilmente più tradizionale e “politicamente corretta”, ma colpisce ancora una volta il discorso sulle responsabilità del cinema e della visione – a condurre il reportage è un optometrista che ha riconosciuto fra i protagonisti di The Act of Killing gli aguzzini di suo fratello -, che proprio come il già citato film di Panh tenta disperatamente di restituire una forma a un massacro documentato soltanto da filmati propagandistici e telegiornali codini (esemplare, in questo senso, l’inclusione di un servizio della NBC dell’epoca, a rimarcare il silenzio e l’accondiscendenza dell’Occidente) e che conta nuovamente su una messinscena più trattenuta, ma sempre insostenibilmente infernale.



Concludendo la giornata con il pessimo Mita Tova, commedia israeliana che vorrebbe affrontare il tema dell’eutanasia con spirito scanzonato e libertario ma che crolla sotto il peso della superficialità e del cattivo gusto senza risparmiarsi nemmeno il moralismo finale di ritorno, si rientra in sala al mattino per accogliere il primo concorrente europeo in programma: si parlava di inopinati cambi di genere nel caso della nuova fatica di Iñárritu, ma non meno inopinato è l’approdo in territori umoristici per il francese Xavier Beauvois, specie alla luce di quel Le petit lieutenant che di fatto riarrangiò le coordinate moderne del polar e dell’ancor più mesto Uomini di Dio.

La rançon de la gloire

Con il consueto, asciutto pudore che da sempre contraddistingue il suo cinema, Beauvois parte da uno spunto tanto farsesco quanto disperato, ossia la vicenda reale del trafugamento della salma di Charlie Chaplin da parte di due immigrati senza arte né parte al fine di ottenere un lauto riscatto. La rançon de la gloire si affida a un andamento genuinamente monicelliano e al volto “malincomico” del belga Benoît Poelvoorde, reso familiare al grande pubblico nostrano da prodotti di cassetta come Emotivi anonimi e Niente da dichiarare?, presente al Lido anche col triangolo sentimentale di 3 coeurs) e al sorriso triste à la Mastroianni – evocato anche dalla presenza nel cast della figlia Chiara – del franco-marocchino Roschdy Zem, ma restituisce ulteriore genuinità coinvolgendo nel progetto anche un’autentica discendente dell’autore di Tempi moderni, la nipote Dolores. Ne esce un agrodolce ritratto della quotidiana miseria umana a tratti un po’ confortante – non manca, con le dovute proporzioni, il finale più lieto che era lecito chiedersi -, ma il coinvolgimento, grazie in primo luogo a due protagonisti trascinanti e di contagiosa simpatia, non manca e l’omaggio, non tanto a Chaplin, quanto a Charlot (di cui peraltro, ricorre il centenario della nascita) come protettore dei reietti e dei rinnegati suona sincero e toccante.

Ghessena - Rakhsh?n Bani-E'tem?d e Peyman Moaadi

Ghesseha

C’è spazio, subito dopo, per uno degli assi nella manica di Alberto Barbera e uno dei più accreditati candidati al palmarès, il corale Ghesseha di Rakhsh?n Bani-E’tem?d, mai distribuita in Italia ma conosciuta internazionalmente come l’unico possibile contraltare femminile alla corazzata iraniana dei Kiarostami, dei Naderi e dei Farhadi. A differenza del conterraneo Makhmalbaf, la regista sceglie di restare nei confini nazionali e di raccontare una storia (anzi, un agglomerato di piccole vicende) meramente locale e intrisa di dettagli sulle piccole e grandi umiliazioni – specie del sesso debole – della vita mediorientale, includendo nel suo affresco le più diverse realtà pubbliche di Teheran, concentrandosi primariamente sul ruolo salvifico dei sentimenti nel clima di repressione della repubblica islamica, senza la geometrica perfezione di meccanismi a orologeria come Una separazione o la modernità nervosa de I gatti persiani e con fin troppi debiti nei confronti dei suoi colleghi più affermati (il prologo e l’epilogo vengono dritti da 10 di Kiarostami, la sezione centrale è una variazione del Leone d’Oro Il cerchio), ma comunque con ammirevoli sensibilità e coraggio.

Il cast di Realité

Si ricomincia con Orizzonti con il nuovo divertissement di genere di Quentin Dupieux, che i nostalgici degli anni ’90 assoceranno soprattutto al moniker Mr. Oizo e al suo allora ubiquo Flat Beat: reinventatosi film-maker capace di coniugare l’anima trash di mentori come Lloyd Kaufman e John Waters con una confezione ricercata e videoclippara – piuttosto eloquente il suo Rubber, horror comico sulla scia della macchina infernale di Carpenter – il factotum parigino si ripresenta con Realité, declinazione in chiave meta-cinematografica della sua bizzarra poetica. Idealmente a metà fra quel Berberian Sound Studio che due anni fa intrigò la platea di Locarno e Il seme della follia del già citato Carpenter, la pellicola segue le kafkiane peregrinazioni di un timido cameraman di mezza età (l’indimenticabile Alain Chabat de Il gusto degli altri) alla paradossale ricerca sonora dell'”urlo perfetto” da presentare a uno psicotico tycoon in grado di garantirgli il suo primo impiego alla regia: il soggetto somiglia più che altro a una barzelletta dal fiato corto ed è facile intuire a cosa si andrà a parare, derive oniriche e nonsense che vorrebbero dirsi lynchiane in primis, ma è di indubbia creatività la scelta di Dupieux di relegare ancora l’elemento umano ai margini dell’allestimento – in fin dei conti, protagonista del già citato Rubber era nientemeno che un pneumatico pensante assassino – e la riflessione sul labirinto angoscioso della creazione filmica svela un lato concettuale forse insospettabile da chi solo l’anno scorso stordì con le (volutamente) becere spacconate di una burla à la Troma come Wrong Cops. Al di là delle speculazioni, comunque, resta inaccettabile il modo in cui la sezione Orizzonti continui a farsi infinocchiare da simili, bieche prese in giro.

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