MIA Market 2019: la quinta edizione sarà dal 16 al 20 ottobre
— 2 giugno 2019Torna l’appuntamento per i leader dell’industria audiovisiva.
Pochi giorni fa la notizia che il suo 46° film da regista, Café Society, avrebbe aperto la 69° edizione del Festival di Cannes. In attesa di conoscere i primi giudizi di pubblico e critica sulla pellicola con Kristen Stewart e Jesse Eisenberg che sarà proiettata Fuori concorso mercoledì 11 maggio al Grand Théâtre Lumière, la redazione di Movielicious si è messa a pensare ai film di Woody Allen meno conosciuti che, per un motivo o per un altro, meritano di essere riscoperti. Pistola alla tempia: un solo titolo per redattore e 1.000 battute a disposizione. Here we go!
INTERIORS (1978) di Carolina Tocci
Una delle pellicole meno apprezzata e conosciute di Woody Allen, in parte penalizzata per aver visto la luce tra due eccellenze quali Io e Annie e Manhattan è sicuramente Interiors. Accolto freddamente da pubblico e critica quando uscì, il primo film drammatico del regista newyorchese richiama Bergman per tematiche ed atmosfere e si impone come austero e impietoso ritratto familiare incentrato su tematiche cupe ed esistenziali. Allen vi analizza le tensioni, i rancori e i sentimenti repressi tra le sorelle Flyn (K. Griffith), Joey (M. Hurt) e Renata (D. Keaton), che riaffiorano quando la madre Eve (G. Page) viene abbandonata del marito (E.G. Marshall). Le atmosfere eleganti e al tempo stesso gelide e l’aura intellettuale e asettica che pervade i dialoghi rendono Interiors un’opera austera sia narrativamente che visivamente, grazie anche a una regia distaccata che trova nei lunghi piani sequenza e nei personaggi spesso ripresi di spalle o addirittura fuori campo, il modo più corretto per esprimerne l’inadeguatezza. Da riscoprire.
BROADWAY DANNY ROSE (1984) di Fabio Giusti
Incastonato temporalmente tra il capolavoro sperimentale Zelig e il gioiellino metacinematografico La rosa purpurea del Cairo, Broadway Danny Rose corre il serio rischio di passare inosservato ancora oggi, a più di trent’anni dalla sua uscita in sala.
Ed è un peccato perché la storia di questo sfortunatissimo manager di artisti del tutto privi di talento (xilofonisti ciechi, ventriloqui balbuzienti e crooner falliti con problemi di alcol) è la quintessenza dell’Allen che non si può fare a meno di amare.
Esaurita infatti la lugubre fascinazione per Bergman (Interiors) e Fellini (Stardust Memories), in questo film Woody Allen non solo riscopre la sua vena più leggera, ma opera una mirabile sintesi tra le sue due anime: quella più votata alla comicità tout court e la malinconica introspezione che, da Manhattan in poi, è stata cifra distintiva di tutto il suo cinema.
Illuminato dal magnifico bianco e nero di Gordon Willis, Broadway Danny Rose è un’elegia di New York – l’ennesima – tutta racchiusa in un flashback e un film molto più complesso di quanto la patina ridanciana possa far pensare. Oltre ad essere il più caustico dei dietro le quinte dello showbiz mai scritti da Allen.
OMBRE E NEBBIA (1992) di Andrea Bosco
Se La rosa purpurea del Cairo transustanziava il rifugio nell’arte e nella fantasia nell’atmosfera da sogno della Hollywood della Golden Age, Allen compie la medesima operazione sei anni più tardi nell’incubo assurdo e distorto di una fantomatica Mitteleuropa a ridosso degli imminenti regimi, calando il tutto in un opprimente clima espressionista fra Brecht, Pabst e Kafka in cui dominano indeterminatezza e persecuzione (Le armonie di Werckmeister, in fondo, viene da qui). Ombre e Nebbia, oltre a essere con ogni probabilità l’apice della sua ricerca formale (fondamentale il contributo di Carlo Di Palma e di Santo Loquasto), è l’opera con cui, dopo decenni di freddure, Allen fa apertamente i conti con l’Olocausto, inaugurando, lungo una Kristallnacht livida e paradossale fatta di piccoli uomini (il suo Kleinman) e strangolatori, la sua riflessione sulla necessità della magia, e quindi dell’illusione, per rispondere al vuoto del quotidiano. Un capolavoro imprescindibile e compendiario.
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