La ruota delle meraviglie

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Quarant’anni dopo, La ruota delle meraviglie riporta Woody Allen a Coney Island: era il 1977 quando il regista newyorkese girava quell’incanto di Io & Annie, in cui il nevrotico Alvy Singer, una delle innumerevoli emanazioni dell’Allen-pensiero nonché il più riuscito alter-ego dell’autore, si presentava più o meno così: “Il mio analista dice che traviso i miei ricordi d’infanzia, ma giuro che sono cresciuto sotto le montagne russe del distretto di Coney Island di Brooklyn. Forse ha influito sul mio temperamento che è un po’ nervoso, credo“.
Un nostalgico ritorno alle origini con una vicenda che si svolge, negli anni Cinquanta, all’ombra della Wonder Wheel, la celebre ruota panoramica del luna park di Coney Island. Quattro personaggi si intrecciano nel frenetico mondo del parco divertimenti: Ginny (Kate Winslet), ex attrice malinconica ed emotivamente instabile, costretta a lavorare come cameriera per mantenere il figlio Richie; Humpty (Jim Belushi), il suo rozzo marito, manovratore di giostre; Mickey (Justin Timberlake), un aitante bagnino con il sogno di diventare scrittore, e Carolina (Juno Temple), la figlia che Humpty non vede da anni e che ora è costretta a nascondersi nell’appartamento del padre per sfuggire al proprio passato.



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Non sarà uno dei più ispirati e riusciti lavori di Allen, ma ad averne di film come La ruota delle meraviglie, con i suoi personaggi fragili e imperfetti, resi vivi da quelle piccole sfaccettature che non sono altro se non le cause e i desideri che li muovono all’interno di una storia dall’impianto dichiaratamente teatrale. Al centro della scena, una ritrovata Kate Winslet (non la vedevamo così appassionata dai tempi di Carnage) alle prese con un’eroina tragica e disperata che ricorda non poco un altro simbolo della filmografia alleniana recente, la Blue Jasmine interpretata da Cate Blanchett: anche lei alle prese con un tracollo emotivo ed esistenziale la cui feroce componente drammatica viene ancor più amplificata dal contesto futile e leggero nel quale ha luogo, anche lei alle prese con i sogni spezzati e le speranze per una nuova vita che sembra sfuggirle ogni giorno di più. Al suo fianco, degli ottimi comprimari, da un rude Belushi dal cuore tenero che cerca di tenere a bada la sua affezione per la bottiglia, fino a una Juno Temple deliziosamente svanita e a un Justin Timberlake dagli occhi perennemente illuminati dal sogno romantico che coltiva, mentre tiene d’occhio i bagnanti dalla torretta (“Tanto qui non affoga mai nessuno“).

Immobilizzata nel tempo, con le sue luci e le sue ombre, dalla fotografia di Vittorio Storaro (qui alla sua seconda collaborazioe con Allen, dopo l’incipriato Café Society), La ruota delle meraviglie impedisce la vista sull’oceano dalla casa-tugurio di Ginny e Humpty. Gli orizzonti si stringono sempre di più in quel piccolo, logoro appartamento illuminato giorno e notte dalle luci delle attrazioni che lo circondano, teatro di uno struggente monologo finale sul matrimonio declamato da una gigantesca Winslet.
E se la sensazione che ci si trovi davanti a un Allen un po’ troppo contenuto e saldamente aggrappato a un canovaccio ormai messo in scena tante altre volte è indubbia, è anche vero che nessuno come lui si è dimostrato abile nel trovare sempre il modo per infondere nuova linfa al già visto. In un simile contesto i cliché alleniani risuonano con un fragore diverso, disperato. Così il brusco passaggio di registro dalla commedia al dramma a metà film e così la scelta di lasciarsi alle spalle il confortevole universo intellettuale per gettarsi a capofitto in una realtà misera e disillusa – ma pur sempre dominata dal Fato – in cui le danze dei personaggi si fanno pesanti e le loro fragili psicologie smettono di essere un argomento vezzoso su cui intavolare discussioni a cena.

Voto 7

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Carolina Tocci

Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.

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