Jackie

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“Puisque le mythe vole du langage, pourquoi ne pas voler le mythe?” – Roland Barthes



C’è un filo conduttore nettissimo che attraversa la produzione, oggi inarrestabile e proteiforme, di Pablo Larraín, ed è riscontrabile  nell’esigenza di scandagliare la Storia focalizzandosi sulla sua periferia e sulle sue ripercussioni nel quotidiano, un vero e proprio “cinema del retroscena” in grado di indagare il lato oscuro del Novecento, dagli inferi putrescenti di Tony Manero e di Post mortem alla transizione purgatoriale di NO e de Il club, tenendosi a debita distanza dai fenomeni che lo caratterizzarono e dalle personalità che ne furono protagoniste.

È a partire dal ritratto cubista di Neruda, tuttavia, che nel discorso del cineasta di Santiago qualcosa inizia a cambiare sensibilmente, per coinvolgere direttamente nell’orizzonte degli eventi quel livello macrostorico finora solamente suggerito e trasfiguratosi mostruosamente nelle sue insignificanti vittime e nei suoi piccoli carnefici, un’evoluzione che molti hanno superficialmente etichettato come un excursus nel genere biografico e che in realtà rappresenta il nuovo grado di sofisticazione di una poetica caleidoscopica eppure coerentissima che identifica nel passato – come diceva Hartley – una intangibile, inattendibile “terra straniera”.

E se il poeta di Parral assurgeva a statura epica attraverso una serie di peripezie fra il diario e la metanarrazione, in un corto circuito costante tra il fatto e la sua reinvenzione, Larraín compie la medesima operazione su chi del Secolo breve è stato fra i più diretti ed enigmatici testimoni, quell’icona a metà tra il folklore e la tragedia diventata nel corso degli anni – citando le parole dell’autore – la più sconosciuta donna famosa dell’era moderna, trasformandola nel tramite ideale e controverso fra l’effettività della cronaca e la mistificazione del culto.

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Jackie è quindi, al pari di Neruda, un’opera di pura mitopoiesi e una riflessione sulla natura stessa del racconto e delle sue implicazioni etiche, sulla necessità della finzione come antidoto all’impermanenza dell’esistenza e alla persistenza delle cose. Nella visione d’insieme, i quattro giorni successivi all’assassinio del 35° Presidente degli USA fungono da fondamenta per la genesi della grande tradizione americana e da preludio all’illusione arcadica con cui ancora adesso si fa coincidere il triennio kennediano, ma l’intento non è né ipocritamente agiografico, né maliziosamente revisionista, bensì profondamente decostruttivo e scompositivo, l’esame autoptico di un’élite di uomini e donne in procinto di innalzarsi a levatura divina.

Il metodo con cui Larraín si avvicina alla materia, perciò, non può che essere prettamente non-lineare e antinarrativo, affidato alla giustapposizione di diversi piani espositivi, dall’intreccio delle due conversazioni private lungo le quali l’ex-First Lady si confessa, laicamente, al giornalista Theodore H. White (Billy Crudup) e, religiosamente, a un anziano prete cattolico (John Hurt, qui al suo ultimo ruolo) allo special della CBS che permise ai telespettatori di tutta l’America di inoltrarsi insieme a lei negli interni presidenziali. Divagazioni che servono da punteggiatura al resoconto del disorientamento individuale e collettivo, tra le surreali, fantasmatiche camminate di Jackie in una Casa Bianca deserta, le tappe del suo progressivo isolamento dovuto al repentino insediamento di Lyndon Johnson (John Carroll Lynch) e le obbligatorie cerimonie di rito con cui l’establishment volle sbarazzarsi in fretta e furia di JFK.

Plasmando e destrutturando la fabula con un uso vertiginoso del flashback e dell’ellissi, il regista cileno rifiuta l’approccio immediato e scolastico del biopic convenzionale per fare della sua eroina un coacervo di incongruenze e di contraddizioni, una comprimaria del potere ritrovatasi improvvisamente sotto i riflettori del mondo e guidata ora dalla ragion di Stato, ora dal narcisismo, immortalata ora nel vortice disordinato del dolore segreto, ora nella frigida compostezza del lutto istituzionale.

È così che Larraín evade, spiazzando e riadattando per la prima volta una sceneggiatura – premiata a Venezia – non sua, dai limiti del progetto su commissione, sorretto dalla monumentale interpretazione di una diafana, esangue e straordinariamente mimetica Natalie Portman, inserisce a pieno titolo nel suo immaginario e fa sua una figura apparentemente assai lontana dai suoi contesti abituali, rendendola, come Neruda, un individuo fallibile che affronta il declino costruendosi da solo la propria leggenda, e la coordinatrice di un colossale spettacolo della morte che, agli antipodi di quello sberleffo dissacrante che il René Saavedra di NO architettava per convincere il Cile ad abbracciare un futuro di libertà, cerca disperatamente di sublimare e di perpetuare il momento contro l’incedere dell’oblio.

Tutto concorre, dagli archi ubriachi e minimali di Mica Levi (Under the Skin) alla fotografia alabastrina di Stéphane Fontaine (collaboratore di fiducia di Jacques Audiard), alla creazione di un reame vago, incorporeo e fasullo quanto la Camelot arturiana, evocata in colonna sonora dall’omonimo musical tanto amato dai Kennedy, modello impossibile per una classe dirigente che, probabilmente, il mondo avrebbe voluto rivoluzionarlo davvero, ma che il destino e le circostanze hanno reso soltanto le “belle facce” della Storia.

Perché questo, sostanzialmente, è Jackie, una meditazione dolente, rassegnata e dall’enorme impatto emotivo sulla fuggevolezza, sulla labilità e sulla crudeltà del Tempo che passa, della Memoria che ineluttabilmente sfuma, di ciò che, insomma, ci resta mentre la vita va avanti senza di noi, come le laconiche targhe commemorative affisse alle porte, le tombe e i manichini in tailleur che cominciano ad affollare le vetrine nel corso di un crescendo straziante che chiude l’unica prova di autentica sincerità e di lucida introspezione da parte del cinema statunitense di questa stagione – ironico, se si considera la provenienza del suo artefice -, un capolavoro irrinunciabile e uguale a nient’altro che conferma Pablo Larraín come la voce e, soprattutto, lo sguardo più originale e geniale della sua generazione.

Voto 9

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